Archivio per la categoria ‘Biotecnologia’


Traduzione a cura di Denis Gobbi

Ricercatori di un laboratorio di Berkeley hanno realizzato un sistema che tramite reazioni chimiche verdi alimentate a luce solare sequestrano CO2 dall’ambiente

 

 

Un nuovo sistema che utilizza luce solare per convertire diossido di carbonio in prodotti chimici utili a fabbricare plastiche biodegradabili, prodotti farmaceutici e combustibili liquidi. Il tutto è stato dimostrato da alcuni scienziati statunitensi.

Nel loro sistema ibrido, nanofili metallici e batteri lavorano insieme per mimare la fotosintesi – il processo utilizzato dagli organismi viventi per catturare energia dal sole e utilizzarla per produrre nutrienti a partire da diossido di carbonio e acqua.

Ma piuttosto che produrre nutrienti, questo sistema è stato progettato per utilizzare la luce del sole al fine di convertire le emissioni di diossido di carbonio e l’acqua in acetato – un mattone chimico da costruzione molto versatile che può venire utilizzato per sintetizzare molecole più complesse.

Anche se questa tecnologia è ancora piuttosto lontana dal poter essere commercializzata in modo redditizio, una sua versione futura potrebbe fornire una valida alternativa alla cattura e all’immagazzinamento della CO2, offrendo un’opzione pulita per impedire al diossido di carbonio di entrare nell’atmosfera.

Crediamo che il nostro sistema rappresenti un rivoluzionario salto in avanti nel campo della fotosintesi artificiale.

Il nostro sistema ha il potenziale per poter cambiare profondamente l’industria chimica e petrolifera in quanto potremmo produrre prodotti chimici e combustibili in modo totalmente nuovo e rinnovabile, piuttosto che estraendoli dalle profondità nel sottosuolo.

– Peidong Yang, chimico e capo ricercatore all’Università Californiana di Berkeley

Il sistema è composto da nanofili di silicio e titanio disposti verticalmente. Questi fili assorbono la luce del sole, la quale avvia il sequestro del diossido di carbonio. Questa struttura viene infatti popolata da batteri capaci di produrre enzimi conosciuti per la loro abilità nel catalizzare selettivamente la riduzione del diossido di carbonio.

 

Immagine SEM a sezione trasversale della struttura verticale di nanofili e batteri utilizzati in questo rivoluzionario sistema di fotosintesi artificiale

 

Per questo studio, la squadra ha utilizzato gli Sporomusa ovata, un batterio anaerobico che prende gli elettroni direttamente dall’ambiente circostante  e li usa per ridurre il diossido di carbonio.

Lo S. ovata rappresenta un fantastico catalizzatore per il diossido di carbonio in quanto produce acetato, un composto chimico intermedio molto versatile che può essere utilizzato per la produzione di una variegata gamma di composti chimici utili.

Siamo stati in grado di popolare uniformemente l’ambiente di nanofili con i batteri utilizzando semplicemente acqua con tracce di vitamine come unico componente organico.

– Michelle Chang, co-autrice dello studio di UC Berkeley

Una volta che il diossido di carbonio è stato ridotto dai batteri in acetato, E.coli geneticamente modificati vengono utilizzati per sintetizzare i prodotti chimici di riferimento.

 

 

La squadra ha raggiunto un’efficienza di conversione dell’energia solare dello 0,38 % in circa 200 ore sotto luce solare artificiale, un’efficienza paragonabile a quella di una foglia. Ma serve ancora ulteriore ricerca prima che il loro sistema possa risolvere il problema mondiale legato alle emissioni di diossido di carbonio.

Come molti ormai sanno, più diossido di carbonio immettiamo nell’atmosfera più la sua temperatura sale di conseguenza. I livelli atmosferici di diossido di carbonio sono ormai ai massimi livelli per quanto riguarda gli ultimi tre milioni di anni, risultato dovuto principalmente alla combustione di risorse fossili. Nonostante tutto, però, i combustibili fossili rimangono una risorse energetica significativa per il nostro prossimo futuro. Tecnologie in grado di sequestrare la CO2 prima che si diffonda nell’atmosfera vengono attualmente utilizzate ma richiedono che essa venga poi immagazzinata, una caratteristica che pone una sfida ambientale significativa.

La squadra afferma di star lavorando adesso ad un sistema analogo di seconda generazione, avente un’efficienza di conversione da energia solare a composto chimico del 3 %. Continuano affermando che se riusciranno a raggiungere un’efficienza del 10% in una maniera costo-effettiva, la tecnologia potrebbe venire commercializzata con successo.

I ricercatori hanno descritto il loro sistema nel giornale Nano Letters, pubblicato dalla American Chemical Society.

 

Fonti: sciencealert.com eurekalert.com pubs.acs.org

 

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Traduzione a cura di Denis Gobbi

Potrebbe essere possibile creare un hamburger che aiuti l’ambiente e migliori la tua salute. Ma il suo sapore riuscirà a conquistare le masse?

 

Le persone vogliono hamburger. Puoi leggere “Catching Fire” di Richard Wrangham per scoprire come l’uomo si sia evoluto in un primate pensante imparando a cucinare gli animali che uccideva. O puoi chiedere al titolare di una prestigiosa scuola di cucina in Giappone, co-proprietario di un ristorante specializzato in sushi di Manhattan. Dove trovi il carburante più efficiente per il tuo allenamento triatletico? Da un paio di quarti di libbra da McDonald’s ogni giorno ovviamente!. Vegetariani e vegani vogliono hamburger. Walter Robb, co-CEO di Whole Foods, afferma che da quando ha avviato un negozio di cibo salutare nel nord della California alla fine degli anni ’70, ha venduto tofu, seitan e qualsiasi altra cosa che potesse sembrare carne anche se in realtà non lo era. “Questa roba vende”, dice semplicemente. Libri interi dedicati a burger vegan, anche se sanno di cartone ondulato deidratato e stagionato. Ovviamente, ci sono ottime ragioni per per decidere di non mangiare carne. Li puoi ovviamente menzionare insieme a Ethan Brown, un robusto vegano alto 6 piedi (ndt 183cm circa) che ha venduto la sua casa in Washington D.C. e saccheggiato i suoi risparmi familiari per fondare una startup chiamata “Beyond Meat” (“Oltre la Carne” ndt). Dato che allevare bestiame è terribilmente inefficiente in quanto a consumo di acqua e terreno, egli ha pensato che creare strisce di “pollo” di soia e polpette di proteine vegetali “the Beast” (“la Bestia” ndt) avrebbero rappresentato una via per aiutare l’ambiente di gran lunga migliore che, per esempio, creare celle di combustibile: la carriera che ha abbandonato. Lungo la strada ha trovato in Bill Gates e nei fondatori di Twitter Biz Stone e Evan Williams dei validi finanziatori. E’ difficile, di fatto, trovare un miliardario della tecnologia che non abbia investito in un’alternativa alle proteine che miri a mettere fuori mercato gli allevamenti tradizionali. Tutti loro riconoscono la realtà del mercato: tutti comprano hamburger. “La carne è così da macho” sostiene Williams. Io mangio carne, è difficile essere un recensore di ristoranti come me, astenendosi dal farlo. Mi piace pensare di essere un po’ meno colpevole se questa è stata cresciuta con cura, uccisa umanamente (non che questo significhi qualcosa di ben chiaro per me, da quando ho iniziato a scrivere a proposito di cibo ho guardato polli, agnelli e bestiame venire uccisi e macellati in fattorie e mattatoi), e venduta ad un prezzo che renda possibile uno stipendio decente per tutte le persone coinvolte nella sua produzione. Ma non ho mai provato ad illudermi del fatto che non più che una piccola frazione delle persone che vogliono la carne possano permettersi di tenere vive queste illusioni. Il problema è che le nuove alternative sono – usando le parole di un miliardario della tecnologia che non si è venduto all’idea, Nathan Myhrvold (chef e autore dell’enciclopedica Cucina Moderna) – essenzialmente un “Tofurkey leggermente migliore” (il Tofurkey è un piatto di Tofu o Seitan ndt). E allora perchè preoccuparsi? Questa è stata la domanda che mi frullava nella mente mentre ero diretto agli uffici di Beyond Meat a El Segundo, California. Perchè sacrificarsi per produrre un burger non-proprio-di-gomma? Perchè non creare semplicemente qualcosa di nuovo?

Il Manzo

Beyond Meat può considerarsi una compagnia tecnologica, il tutto è cominciato quando Brown ha cominciato a rovistare tra documenti scientifici per trovare i ricercatori universitari che stavano lavorando ad avanzamenti nella T dell’acronimo TVP – Textured Vegetable Protein (strutture di proteine vegetali ndt), che solitamente hanno una consistenza a metà tra la lavorazione della creta e la spugnetta di lattice. La struttura, Brown ha pensato, era la chiave che poteva condurre ad un miglior sostituto della carne. Egli ha voluto variare anche la V: per la maggior parte TVP significa soia, in un mondo dove molte persone vogliono evitare organismi geneticamente modificati e praticamente tutta la soia è OGM (non quella destinata ad alimentazione umana in europa, grazie all’attuale legislazione europea in merito ndt). La sua premessa fù che la sfida del sapore fosse già stata vinta dai chimici che vi lavorarono dai tardi anni ’60 fino agli ’80 – un’era d’oro per la sperimentazione nel campo della lavorazione del cibo, quando gli strumenti per misurare il sapore furono inventati e perfezionati e le multinazionali del sapore facevano a gara per sviluppare nuove molecole. I suoi uffici a uffici a El Segundo in California, situati in una strada tranquilla costeggiante la spiaggia in un quartiere con centri commerciali, sembra – più che una startup hi-tech – il dominio di alcuni pensatori rilassati e amichevoli. L’essenziale macchina oggetto principale della ricerca consiste in un estrusore dal goffo aspetto che Brown chiama “Il Manzo,” per sottolineare la sua efficienza nel convertire il suo cibo in “carne.” I progettisti mescolano pastoni di soia bianca e proteine di piselli somiglianti a cibo per animali provenienti da secchi di plastica bianchi in un lato della macchina insieme ad acqua, prelevando strisce dall’estrusore per controllarne umidità e la consistenza. Un ragazzo su di un tavolo di noce utilizza un contagocce per somministrare con precisione un liquido color ruggine derivante dalla curcuma in una polpetta “Beast” per scoprire se si è in grado di trattenere il liquido all’interno della “carne” durante la cottura e creare un look alla mioglobina, una proteina presente nelle cellule muscolari; i piatti di carta sotto i tortini cucinati intanto continuano ostinatamente a colorarsi. La cucina sperimentale ha una dispensa aperta con ripiani pieni di spezie e peperoni d’ogni tipo, polveri d’amido solo leggermente più astruse di quelle che troveresti in un supermercato, ed un fornello che sembra uscito da un appartamento in affitto.

A causa della sua complessa struttura, la carne è una delle cose più difficili da imitare tramite gli aromi e la strutturazione delle proteine.

 
Dave Anderson, un amichevole e leggermente ispido chef, gestisce un popolare ristorante vegan a Los Angeles, dove è particolarmente fiero del suo “multistep portobello mushroom bacon” e del suo seitan cotto in brodo di funghi (“lo potresti tagliare come un morbido filetto”). Brown potrebbe aver pensato che il sapore fosse la parte più facile e la struttura quella più ardua, ma Anderson ha imparato tramite il vecchio metodo del prova e sbaglia che entrambi sono alte montagne da scalare. La carne, ci dice Don Mottram, un professore emerito di chimica dei cibi all’Università di Reading, è il problema più difficile da risolvere per le compagnie nel campo della chimica degli aromi. A causa della sua complessa struttura, sostiene, la carne sviluppa un sapore a tassi differenti mano a mano che grassi, muscoli e ossa cuocciono in successione. Mottram ha speso decenni nell’investigare il sapore della carne ed in particolare la reazione di Maillard, ovvero la caramellizzazione dei carboidrati che rilascia centinaia o addirittura migliaia di composti differenti durante la cottura. L’approccio di Anderson all’aroma deriva dal cuoco che è in lui: sperimentare costantemente con proporzioni e ingredienti. Coraggiosamente riscalda alcune strisce di “Beyond Chicken” lightly seasoned (“Oltre il Pollo” leggermente stagionate ndt),  “Beyond Beef” beefy crumbles (“Oltre il Manzo” muscoli sfrigolanti ndt) e un “Beast Burger” (Burger Bestia) per farmeli assaggiare in contrasto con la loro controparte di vera carne – una cosa che lui e il resto degli sviluppatori di aromi, inclusi i vegani più accaniti, eseguono regolarmente (loro credono che dando ai loro compagni vegan alternative migliori possa fargli recuperare il karma perso in queste occasioni). Rimango impressionato dalle strisce “leggermente stagionate”,  simili al pollo ribollito del pranzo del sabato di mia nonna ungherese proveniente dalla sua zuppa di pollo del venerdì sera. Lei usa aglio e cipolla dappertutto, troppo sale e abitualmente del prezzemolo fresco o deidratato. Così fà anche Anderson. Quel che a lei richiede ore di ebollizione per un particolare acquitrinoso ancora asciutto e una gommosa consistenza, Beyond Meat lo ottiene tramite la produzione di pezzi di soia estrusa aromatizzata in salamoia con procedimento sottovuoto, cosicchè il liquido possa penetrare al meglio. Le strisce di pollo di una confezione proveniente da Tyson o da un simile supermercato  – lo standard che Anderson stà cercando di imitare – ha un sapore più carnoso. Ma solo leggermente. La loro struttura gommosa e fibrosa è più inequivocabilmente carne rispetto alle strisce di Beyond Meat, anche se queste ultime ci sono vicine e si avvicineranno sempre più. Tim Geistlinger, a capo del reparto Ricerca e Sviluppo, mi lascia provare un nuovo prototipo di strisce di “pollo” estruse dal Manzo, aventi una striatura più variegata della versione corrente. Con una migliore idratazione, le strisce con la nuova configurazione possono essere difficilmente distinguibili da quelle tirate fuori da un borsa del supermercato Tyson. Sono passato attraverso la migliore parte della confezione delle strisce Beyond Meat senza pensarci davvero troppo. E sicuramente mangerei più volentieri ciò che estrude Beyond Meat piuttosto che il contenuto della confezione di Tyson.

La relativa asciuttezza di un Beast Burger può venire rimediata con gli stessi metodi utilizzati nei tradizionali hamburger.

La Bestia è più problematica. Necessita di essere abbellita con molto condimento, più cipolla e aglio, paprika, mesquite, zucchero – per coprire il gusto della polvere nutriente che contiene cosicchè Brown possa dire nei Ted-talk che il suo prodotto ha più ferro e proteine del vero manzo, più acidi grassi omega-3 della stessa quantità di salmone. Quello che manca alla Bestia è abbastanza idratazione per permetterti di fare a meno di aggiungerci una discreta quantità di liquido per cucinarla fino in fondo. Quando ho visto Brown mangiarne una, ci ha aggiunto ketchup, pomodoro a fette e lattuga. La cosa più impressionante non è quanto vicini siano questi prodotti agli originali strisce di pollo e carne di manzo da supermercato che cercano di imitare ma quanto ne esca degradato il nostro senso del sapore. Se Bill Gates e gli altri luminari investitori di Beyond Meat possono essere ingannati, come dicono di esser stati, potrebbe essere più a causa delle loro abitudini piuttosto che al gusto vero e proprio del pollo o della bistecca. Dopo il mio viaggio degustativo, sono andato a Cut, una delle più costose bisteccherie di Los Angeles, all’Hotel Beverly Wilshire. Non c’è nulla di equiparabile ad una bistecca con tutto quel grasso marmoreo intramuscolare da strappare a morsi dall’osso in un’osteria: un filetto da masticare delicatamente, tendini e cartilagine come struttura e un pesante picco di grasso che sembra ne suo piccolo un intero gruppo alimentare. Beyond Meat e i suoi rivali sono lontani decenni da qualcosa di simile.

La cosa più impressionante non è quanto vicini siano questi prodotti agli originali strisce di pollo e carne di manzo da supermercato che cercano di imitare ma quanto ne esca degradato il nostro senso del sapore

 
Ma per quanto riguarda gli hamburger kobe portatici da Cut come omaggio dopo che il mio tavolo ha ordinato abbastanza bistecche da renderlo conveniente per il ristorante: una volta raschiata via la cenere carbonizzata e ignorato il ketchup fatto in casa e il buon pane appena sfornato, la cartilagine gommosa non è così tanto distante dal manzo asciutto e insaporito che Anderson ci ha servito insieme alla “Bestia” di Beyond Meat. Il macinato di manzo da solo è triste. Con un po’ di lavoro su gusto e umidità, Anderson e Geistlinger saranno capaci di passare oltre all’apparenza di cibo per cani della “Beast”. Potrebbero addirittura perfezionare la bistecca Salisbury e insinuarsi in quelle principali mense scolastiche che Anderson immagina di poter agguantare nel corso della sua vita o ancora imitare quel petto di pollo senza pelle che entrambi pensano non sia poi così lontano da raggiungere. Un’altra alternativa – la carne in provetta, anche conosciuta come carne coltivata, carne in vitro o carne da laboratorio – è probabimente a decenni di distanza dalla sua commercializzazione, nonostante l’introduzione di un hamburger in vitro da 332.000 dollari alla London Press Conference di agosto 2013. Questa carne macinata rosata è stata prodotta nel laboratorio dell’Università di Maastricht diretto da Mark Post, un biologo vascolare e chirurgo: consiste in miliardi di cellule coltivate a partire da alcune singole cellule di muscolo scheletrico prese dal collo di un bovino, nutrite in un caldo brodo di nutrienti sintetici e siero fetale di mucca. Per permettere alle cellule di crescere in miotomi, i mattoni costituenti la fibra muscolare, i ricercatori riducono il siero presente nel brodo causando il blocco della divisione e fusione cellulare. Quindi sospendono le cellule in un gel che circonda una colonna centrale che gli permette di allinearsi e formare fibre muscolari. Per sostenere la struttura, Post e gli altri hanno prima utilizzato del velcro e poi cercato opzioni biodegradabili. Alla degustazione in diretta, i degustatori hanno riportato che l’hamburger sapeva quasi come uno di quelli tradizionali, ma non così succoso e “sorprendentemente croccante.” (il finanziatore dell’hamburger è stato Sergey Brin.) In qualche modo le menti pragmatiche di ricercatori in Brooklyn, New York, stanno mirando a produrre colture in vitro in un’azienda chiamata “Modern Meadow” – ndt Prato Moderno – (il nome di queste aziende, come avrete notato, sfocia nell’orwelliano). Gabor Forgacs, un fisico teorico che ha cambiato a metà strada la sua carriera in biologia dello sviluppo e suo figlio, Andras, stanno incubando cellule di manzo e mischiandole con pectina e spezie per creare una serie di prodotti, incluse “patatine cotte al gusto di bistecca”. La loro compagnia d’origine, Organovo, intende produrre tessuto vivente per il test di farmaci; produrre cibo sembrava un obiettivo egualmente raggiungibile. Ovviamente, Modern Meadow possiede anchessa il suo angelo custode della Silicon Valley: Peter Thiel. In teoria, le colture di carne posso essere prodotte in scala e offrire qualcosa di vicino alla vera carne più di qualsiasi altro progetto attualmente in sviluppo. Grazie alla sua natura, offrirebbe i gusti complessi della carne.  Ma per ora è ancora nella fase di pura ricerca. I problemi sono molti: gli scienziati devono scoprire come far crescere il grasso intramuscolare, tendini, cartilagine come pure le ossa, oltre a una struttura che mimi le vene e i vasi sanguigni che tengano queste cellule nutrite cosicchè non diventino cancrenose. Il lavoro è così costoso che probabilmente gli step sucessivi porteranno a tentativi di produzione di organi per il trapianto – che “valgono milioni di dollari a libbra piuttosto che solamente i dieci dollari di una libbra di carne,” come ci ha fatto notare Myhrvold.

Vera innovazione

Nulla di questo sarà abbastanza per le persone che tengono alla cucina. Ingannare più persone avvicinandosi alla degradata carne industriale difficilmente eleverà il palato medio americano. Dichiaratamente, nessuna di queste aziende stà mirando a questo: il loro audience non consiste nelle persone impegnate nella frontiera del gusto. Ma per persone che vogliono esserci in frontiera, alcune nuove ricerche potrebbero tradursi in effettivi miglioramenti. Ciò che mi interesserà scoprire è come i cuochi useranno queste tecniche di isolamento delle proteine per creare intere nuove strutture. Un paio di piatti eterei mi hanno indicato questa via. Li ho provati durante una competizione di washoku, una fisolofia culinaria giapponese che glorifica l’umami con risultati che vanno dal semplice allo squisito. Una era una piramide di tremante e sottile tofu di sesamo, una specialità di Kyoto per monaci buddisti. Simile ad un budino con un’aroma muschiata di sesamo tostato e soia chiara, non intendeva essere nient’altro che delicata, ed è stata diversa da qualsiasi altro tofu io abbia mai assaggiato, inclusi quello nei ristoranti di koreatown che ne sfornano lotti freschi ogni poche ore. L’altro piatto consiste invece in una piccola ciotola bianca di bianco e luminescente tofu ripensato da Rene Redzepi, Lars Williams e il loro staff quando hanno organizzato un avamposto del ristorante danese Noma a Tokyo gli scorsi Gennaio e Febbraio. E’ stato uno dei classici piatti giapponesi che hanno osato fare, Williams ci spiega, una notte mentre stavano osservando il personale in cucina. Piccoli trucioli di leggere, beige e acerbe noci grattuggiate che lo rivestivano come fosse neve; una salsa di erbe verde smeraldo era posata sul fondo. Il piccolo cubo di tofu non sapeva tipicamente di latte o soia, anche se possedeva una reminescenza di entrambi; era come aria di seta, la chiara espressione di cosa il tofu fresco può diventare. Nelle mani di cuochi capaci di tale livello di immaginazione e abilità, la proteina dei piselli isolata – anche fortificata con omega 3 e ferro – può essere la via per salvare il mondo e contemporaneamente mantenerlo in sicurezza per l’inventina culinaria.

Fonte: technologyreview.com

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Traduzione a cura di Denis Gobbi

Ingegneri biomedici cinesi hanno impiegato del metallo liquido per trasmettere segnali elettrici attraverso alcuni divari tra nervi sciatici danneggiati. Questo fatto prospetta un nuovo trattamento per i danni al sistema nervoso.

Quando i nervi periferici sono danneggiati, la perdita di funzione porta all’atrofia dei muscoli affetti, un drammatico cambiamento nella qualità della vita e, in molti casi, ad una sua corta aspettativa.

Nonostante decenni di ricerca, nessuno è riuscito a giungere a un metodo efficace per ricongiungere i nervi danneggiati. Esistono varie tecniche per ricucire gli estremi insieme o di trapiantare dei nervi nei divari creatisi tra le parti daneggiate.

Il successo di queste tecniche dipende in definitiva dall’abilità dei nervi di ricrescere e risaldarsi insieme. Ma dato che i nervi crescono ad na velocità di un millimetro al giorno, ciò può richiedere un significativo ammontare di tempo, alcune volte anni, per ricreare i collegamenti. E durante questo periodo di tempo i muscoli possono degradarsi irreparabilmente, portando alla disabilità permanente.

Così i neurochirurghi hanno a lungo sperato in un metodo che gli permettesse di tenere i muscoli attivi fintanto che i nervi procedessero alla ricrescita. Una possibilità consiste nel collegare elettricamente gli estremi danneggiati cosicchè i segnali provenienti dal cervello possano comunque passare. Ma come farlo nella pratica?

Jing Liu alla Tsinghua University di Beijing e alcuni suoi colleghi hanno per la prima volta riconnesso dei nervi danneggiati utilizzando del metallo liquido. Non solo, essi affermano che nel condurre i segnali elettrici tra gli estremi danneggiati dei nervi, il metallo supera drasticamente in quanto ad efficienza gli elettroliti salini comunemente usati per preservare le proprietà elettriche di un tessuto vivente.

Gli ingegneri biomedici hanno a lungo tempo adocchiato la lega mettallica liquida composta da gallio-indio-selenio (67% Ga, 20.5% In e 12.5% Se per volume). Questo materiale risulta liquido a temperatura ambiente e si pensa sia totalmente benigno. Di conseguenza, si sono studiati vari metodi di implementazione all’interno del corpo, come fatto ad esempio con l’imaging.

Ora un team di ingegneri biomedici cinesi sostiene che le proprietà elettriche del metallo potrebbero aiutare nel preservare la funzione dei nervi fintanto che essi si rigenerino e hanno portato a termine i primi esperimenti necessari a dimostrare questa via come percorribile.

Jing e la sua squadra hanno utilizzato un nervo sciatico collegato ad un muscolo di un polpaccio prelevato da rane toro. Essi hanno applicato un impulso ad un’estremità del nervo e misurato il segnale una volta raggiunto il muscolo del polpaccio che si contraeva ad ogni sollecitazione.

Hanno quindi tagliato il nervo sciatico e posizionato le due estremità dello stesso in un capillare riempito in alcuni casi con il metallo liquido, in altri con soluzione di Ringer, una soluzione di diversi sali progettata per mimare le proprietà dei fluidi corporei. Hanno quindi riapplicato le pulsazioni e misurato come esse si propagavano lungo il percorso.

I risultati si sono rivelati interessanti. Jing e la sua squadra affermano che le pulsazioni passate attraverso la soluzione di Ringer tendevano a degradare intensamente. Al contrario, le pulsazioni sono passate facilmente attraverso il metallo liquido.

Il segnale misurato elettroneurograficamente del nervo sciatico dissezionato della rana toro riconnesso con metallo liquido dopo la stimolazione elettrica è stato simile a quella del nervo sciatico intatto

– Jing Liu

Per di più,  dato che il metallo liquido viene visualizzato chiaramente ai raggi-X, esso può venire facilmente rimosso dal corpo quando non è più necessario usando una microsiringa.

Ciò consente alla squadra di Jing di speculare sulla possibilità di futuri trattamenti. Il loro obiettivo consiste nel creare speciali condotti per riconnettere i nervi danneggiati che contengano metallo liquido utile a preservare la conduzione elettrica e quindi la funzione muscolare, oltre a contenere una soluzione di crescita per promuovere la rigenerazione dei nervi.

Questa è una possibilità eccitante anche se ancora lontana da qualsiasi tipo di applicazione concreta. Le questioni che  solleva sono numerose. Quanta funzione muscolare può essere preservata in questo modo? Potrebbe il liquido in qualche modo interferire o prevenire la rigenerazione dei nervi? E quanto sicuro è il metallo liquido all’interno del corpo, in particolare in caso di perdite?

Queste sono domande a cui Jing e i suoi collaboratori sperano di rispondere nel prossimo futuro, con sperimentazione animale prima e possibilmente su esseri umani poi.

Ci aspettiamo che questa nuova generazione di materiale collegante per i nervi possa essere importante per la riabilitazione funzionale durante la rigenerazione dei nervi periferici danneggiati e l’ottimizzazione della neurochirurgia nel prossimo futuro.

Quindi è possibile che il metallo liquido possa divenire prossimamente un’importante componente nel trattamento dei danni al sistema nervoso.

Fonte: technologyreview.com

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Uova e sperma trasmettono memoria sulla repressione dei geni agli embrioni

Crescenti evidenze suggeriscono come lo stress ambientale possa attuare cambiamenti nell’espressione dei geni trasmessi dai genitori alla loro discendenza, rendendo il tema “epigenetica” molto caldo. Le modifiche epigenetiche non riguardano la sequenza dei geni nel DNA,  ma il modo in cui il DNA viene “impacchettato” e la maniera in cui i geni vengono espressi. Ora, uno studio portato avanti da scienziati dell’ UC Santa Cruz stà dimostrando come la memoria epigenetica possa passare di generazione in generazione e da cellula a cellula durante lo sviluppo.

Lo studio, pubblicato il 19 settembre su Science, è incentrato su una ben documentata modificazione epigenetica: la metilazione di una proteina di DNA chiamata histone H3.

La metilazione di un amminoacido particolare (lisina 27) in questa proteina è conosciuta per l’abilità di poter spegnere o meglio “reprimere” alcuni geni, e questo particolare meccanismo trova un parallelo in tutto il mondo animale multicellulare,  dall’essere umano fino al piccolo Caenorhabditis elegans, il verme utilizzato in questo studio.

Il dibattito

 

“C’è stato un dibattito in corso riguardo la possibilità di ereditarietà del tratto riguardante questa metilazione enzimatica tra cellule e tra generazioni, e noi abbiamo finalmente dimostrato che avviene per davvero” ha affermato Susan Strome, una professoressa di biologia molecolare, cellulare e inerente allo sviluppo all’UC Santa Cruz.

Il laboratorio di Strome ha creato vermi con una mutazione che esclude l’enzima responsabile della metilazione, e quindi fatto accoppiare quei vermi mutati con degli altri normali. Usando etichette fluorescenti, sono stati capaci di tracciare lo sviluppo dei cromosomi contrassegnati (e non) sotto al microscopio, a partire dalle cellule uovo e dallo sperma fino alla divisione cellulare degli embrioni dopo la fecondazione. Embrioni nati da ovuli mutanti fecondati da sperma normale aveva sei cromosomi metilati (derivanti dallo sperma) e sei cromosomi non marchiati (derivanti dall’ovulo).

Mano a mano che l’embrione si sviluppava, le cellule replicavano i loro cromosomi e si dividevano. I ricercatori hanno scoperto che quando un cromosoma marchiato si divide, entrambi i cromosomi figli risultano marcati allo stesso modo. Senza l’enzima richiesto per la metilazione della proteina histone però, il marchio viene progressivamente diluito divisione dopo divisione.

“Il marchio rimane nei cromosomi derivanti da quelli iniziali aventi il medesimo marchio, ma non ce n’è abbastanza per entrambi i cromosomi figli per renderli “carichi al 100%” ha affermato Strome. “Quindi il marchio risulta chiaro nell’embrione iniziale, ma meno nelle cellule figlie dopo la divisione, ancora abbastanza chiaro in un embrione di quattro cellule, ma già dopo 24/48 cellule non riusciamo più a vederlo.”

I ricercatori hanno quindi eseguito l’esperimento inverso, fertilizzando normali cellule con sperma mutato. L’enzima responsabile della metilazione (chiamato PRC2) è normalmente presente negli ovuli ma non nello sperma, non contribuendo molto di più al di là della trasmissione dei suoi cromosomi all’embrione. Quindi l’embrione risultante ha avuto comunque sei cromosomi non marchiati (questa volta dallo sperma) e sei cromosomi marchiati, con la differenza però ora di avere l’enzima.

“Rimarcabilmente, mentre osservavamo i cromosomi attraverso la divisione cellulare, i cromosomi marchiati sono rimasti chiaramente marchiati, perchè l’enzima continuava a riprodurre il marchio, ma i cromosomi non marchiati sono rimasti uguali, divisione dopo divisione” Strome ha affermato. “Questo dimostra che il pattern di cromosmi marchiati (e non) è stato ereditato e viene trasmesso attraverso multiple divisioni cellulari.”

Immagine di embrioni di C. elegans evidenzianti trasmissione ed ereditarietà di marchi epigenetici. L’embrione a sinistra mostra il marchio (in verde) ereditato nei cromosomi dallo sperma ma non nei cromosomi ovociti (in rosa) da una madre mutante senza l’enzima della metilazione PRC2. Il secondo embrione a destra mostra la trasmissione del marchio nei cromosomi derivanti dallo sperma in ognuno dei due nuclei figli. (Foto di Laura J. Gaydos)

 

Importanti implicazioni

 

Strome ha notato come le scoperte in questo studio sulla trasmissione della metilazione della proteina histone nei vermi di C. elegans ha importanti implicazioni in altri organismi, anche se questi usano il marchio repressivo per regolare geni diversi duranti diverse fasi dello sviluppo. Tutti gli animali usano lo stesso enzima per creare lo stesso marchio di metilazione come segnale per la repressione genetica, e i suoi colleghi nel campo della ricerca epigenetica su topi ed esseri umani sono entusiasti delle nuove scoperte.

Strome ha aggiunto: “Il campo della trasmissione epigenetica non è un campo del tutto conosciuto, è molto in movimento.” “Ci sono dozzine di potenziali marchi epigenetici. Negli studi che documentano la trasmissione epigenetica da genitore a figlio, non è chiaro esattamente cosa viene trasmesso, e comprenderlo a livello molecolare è davvero molto complicato. Ora noi abbiamo uno specifico esempio di memoria epigenetica trasmessa ereditariamente, e possiamo vederla nel microscopio. E’ un pezzo del puzzle.”

 

 

Fonte: news.ucsc.edu

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Traduzione a cura di Denis Gobbi

Per la prima volta, i chimici sono riusciti a produrre con successo una cellula artificiale contenente organelli capaci di eseguire i vari steps di una reazione chimica. Tutto questo è avvenuto all’Istituto per le Molecole e i Materiali (IMM –  Institute for Molecules and Materials della Radboud University Nijmegen. La scoperta è stata pubblicata durante il 2014 nel primo numero del giornale “Angewandte Chemie” ed è stato messo in evidenza anche da “Nature Chemistry”

E’ compito difficoltoso per i chimici replicare la chimica delle cellule vive in laboratorio.  Dopotutto, in una cellula tutte le diverse reazioni avvengono simultaneamente nella stessa piccola area, in diversi scomparti e in maniera incredibilmente efficiente. Quest’ultimo è il motivo principale per cui i chimici tentano in tutti i modi di imitare il loro funzionamento. Facendo questo, sperano inoltre di imparare di più sull’origine della vita, e più in particolare della transizione tra reazioni chimiche e biologiche.

Da sinistra a destra: le sostanze sono confinate in piccole sfere (gli organelli) e mischiate con reagenti ed enzimi. Tutto questo confinato all'interno di una parete cellulare polimerica.

Da sinistra a destra: le sostanze sono confinate in piccole sfere (gli organuli) e mischiate con reagenti ed enzimi. Tutto questo confinato all’interno di una parete cellulare polimerica.

Jan Van Hest e l’aspirante PhD Ruud Peters hanno creato i loro organuli riempiendo piccole sfere con agenti chimici epiazzandole all’interno di una goccia d’acqua. Hanno quindi sapientemente ricoperto questa goccia con uno strato di polimeri: la membrana cellulare.  Usando la fluorecenza sono riusciti a  dimostrare come la cascata di reazioni avvenisse in luogo effettivamente. Questo porta loro ad essere i primi chimici a creare una cellula artificiale con organuli funzionanti. Proprio come le cellule del nostro corpo, gli agenti chimici sono capaci di transitare nel plasma della cellula dopo le reazioni negli organuli per essere elaborate altrove nella cellula.

Vista ravvicinata di una cellula polimerica con organelli.

Vista ravvicinata di una cellula polimerica con organelli.

Ricercando l’origine della vita

La creazione di strutture simil-cellulari è al momento molto gettonata nel campo della ricerca chimica, come prova la sperimentazione di diverse tecniche all’ IMM. Il professor Wilhelm Huck per esempio, stà creando cellule a partire da piccole goccie di soluzione molto simile al citoplasma, mentre il già citato gruppo di Van Hest le stà creando usando dei polimeri.

Gruppi in competizione tra loro stanno lavorando vicini alla biologia, creando cellule ad esempio da acidi grassi. Vorremmo tentare di fare lo stesso in futuro. Un altro passo in avanti consisterebbe nel produrre cellule che si producono energia autonomamente. Stiamo inoltre lavorando a metodi di controllo del movimento delle sostanze nella cellula, attraverso gli organuli. Simulando questi meccanismi riusciremo a comprendere meglio le cellule viventi. Un giorno, saremo in grado di crearne copie realmente simili a quelle vere.

Articolo riportato anche su “Nature Chemistry” e “Angewandte Chemie

Fonte: ru.nl

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